1366. «Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi»

La semina del mattino
1366. «Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi» (Is 50,6).

Un rifiuto categorico, umiliante e violento del popolo cui è mandato, è riservato al Servo di Jahwé nel terzo Canto. In esso egli appare come un saggio, un fedele discepolo di Dio incaricato di dare istruzioni a coloro che Lo temono. Il coraggio e la forza gli vengono direttamente da Dio perché la missione è scomoda e ciò gli consente di non opporre resistenza, di non tirarsi indietro, di concedersi ai flagellatori e a chi, umiliandolo vistosamente, gli strappa la barba, il segno della dignità virile, e, con disprezzo, gli sputa in faccia. Il testo profetico si realizza puntualmente nella Passione di Gesù, quando anch’Egli viene duramente flagellato con un numero di colpi molto superiore a quelli consentiti dalla legge, sottoposto al vilipendio esagerato dei soldati romani che lo insultano, gli sputano in faccia e si prendono gioco di lui nel tentativo manifesto di distruggere il suo corpo e la sua dignità umana. La reazione, ieri come oggi, è violenta e parte da un mondo e da una società opulenta e cieca dinanzi alla grazia della verità e della luce che risplende sul buio fitto della vita con le sue contraddizioni umane, relazionali e, finanche spirituali. Si cammina nel buio e si preferisce rimanere senza luce non avendo più un minimo di capacità di distinguere il male dal bene, la prigionia dalla libertà, l’essere malato dall’essere sano. Il messaggio e le modalità della sua trasmissione sono difficili: per questo anche oggi su chi è chiamato ad essere servo di tutti, si abbattono persecuzioni, flagelli, insulti e sputi, cose tutte che attestano una condanna senza appello alcuno. P. Angelo Sardone