1365. «Il Signore mi ha detto: mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria»

La semina del mattino
1365. «Il Signore mi ha detto: mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria» (Is 49,3).

Il secondo «Canto del Servo», riprende il tema del primo in riferimento alla sua missione non solo per il popolo d’Israele ma estesa a tutte le nazioni, rappresentate dalle isole, che da essa saranno illuminate. La percezione del Servo è quella di stare a compiere qualcosa di inutile e di andare incontro ad un insuccesso. Ma la fiducia è tutta e solo in Dio al quale spetta il trionfo finale. Come è accaduto per il profeta Geremia, il Servo è predestinato da Dio sin dal grembo della madre e dotato di una bocca simile ad una spada affilata, reso come una freccia appuntita. La trattazione biblica presenta il Servo nella sua ambivalenza di Israele e nello stesso tempo di suo capo e salvatore. Ma sottolinea particolarmente un dato negativo: l’inutilità della sua fatica e delle sue forze per il compimento della gravosa missione. Probabilmente questo dipende dall’essere impari alla missione affidatagli e l’inadeguatezza è dovuta al limite della sua persona ed alla diversità delle attese degli altri. La missione, infatti, richiede di affidarsi completamente a Dio perchè è Lui a condurla. Ci si accorge di ciò alla conclusione, quando il risultato ottenuto anche dall’impegno personale del Servo rimane comunque la missione voluta e realizzata da Dio. In questo si manifesta particolarmente l’identità di chi anche oggi è servo, di persona cioè al servizio, esecutore del volere di un altro, pur avendovi posto tutto l’impegno possibile. Il Servo di Jahwé sperimenta una sorta di «spossesso radicale» (Bruna Costacurta). Dare tutto, impegnarsi in tutto, fare tutto fino in fondo, garantisce anche a ciascuno di noi la certezza che il successo e la ricompensa vengono dal Signore. P. Angelo Sardone