1159. «Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo ma non potevo»

La semina del mattino

1159. «Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo ma non potevo» (Ger 20,9).

Nel lungo libro del profeta Geremia il capitolo ventesimo, generalmente indicato come le «Confessioni», contiene uno sfogo profondamente umano di una persona provata duramente dalla sorte di essere profeta di Dio fin dal grembo materno. Le vicende della sua vita, come un segno, sono legate a quelle del popolo di Israele al quale è inviato per proclamare oracoli forti che contengono minacce, lamenti ed istruzioni varie a fronte del suo traviamento. La corruzione, soprattutto quella morale, è grande; nel paese c’è panico, i cattivi sembrano prendere il sopravvento. Le ammonizioni non bastano come anche la prova della siccità, la sventura della guerra. Tutto si ritorce sulla psicologia del profeta che non è fragile; è una creatura sottoposta ad una insidia continua verbale e fisica fino a rasentare la morte, a sentirsi infelice per essere nato e sbottare con termini che possono sembrare impropri per un uomo di Dio. Ciò è frutto di una vera e propria seduzione operata da Dio alla quale il profeta dice di non potersi sottrarre. La Parola di Jahwé è per lui motivo di obbrobrio e scherno ogni giorno. Vorrebbe liberarsene definitivamente ma non ha né la forza né la voglia. È dominato da un misterioso fuoco interiore, chiuso nelle ossa, che lo brucia ed è incontenibile. La vicenda ministeriale ed umana di ogni profeta, antico e moderno, anche quella di me sacerdote, è profondamente segnata da un’esperienza analoga che, mentre spesso può togliere il sonno, la tranquillità e bandire gli interessi personali, è completamente nelle mani di Dio che vigila, è sempre al fianco e confonde i detrattori ed i nemici che sono tali perché non comprendono e vorrebbero solo parole accordanti, se non superficiali ed inconcludenti. P. Angelo Sardone